24 settembre 2010

Climate Refugees

Climate Refugees offre un quadro completo delle conseguenze operate dai continui cambiamenti climatici, mutamenti radicali che non solo influenzano il territorio e il suo stato biologico, ma spingono intere popolazioni ad abbandonare i propri paesi e la propria storia. Rifugiati climatici, sempre più spesso provenienti dal mondo occidentale: una prospettiva relativamente sconosciuta di un fenomeno migratorio che non fa sconti a nessuno. Un'umanità che si riscopre nomade, costretta dalle politiche della globalizzazione a cercare, se non giustizia, quantomeno un rifugio in paesi stranieri. Il documentario di Nash offre l'ulteriore riprova di come le continue devastazioni che l'uomo opera sull'ambiente finiscano per ripercuotersi sulla comunità stessa, generando ogni tipo di conseguenza. Economica, ambientale, umana.
Ma il regista punta a rivelare soprattutto il volto umano del cambiamento climatico. Nash analizza le regioni della Terra più a rischio e i numeri sono impressionanti. Il Bangladesh, ad esempio, sarà il paese più colpito dall’innalzamento del livello del mare. In questo paese infatti, la maggior parte della popolazione, ovvero 150 milioni di persone, vive in prossimità del mare, con una densità abitativa tra le più alte. Nel dicembre 2007 il ciclone SIDR, che si abbattè sulle coste, provocò 10.000 morti e un milione di sfollati. Le stime parlano dell’85% della popolazione del Bangladesh a rischio. Circa 100 milioni di profughi climatici. Questo potrebbe creare grossissimi problemi sociali nei Paesi circostanti non solo di accoglienza, ma anche per motivi religiosi, poiché il Bangladesh è un paese a maggioranza musulmana, non certo ben vista dalle nazioni confinanti. Secondo le previsioni, l’innalzamento del livello del mare di circa 1 metro, distruggerebbe il 40% delle coltivazioni del Bangladesh, in un paese in cui l’agricoltura soddisfa a stento i bisogni della sua gente.
Nei prossimi 30-40 si stima che tra le 40 e le 50 nazioni insulari potrebbero scomparire sotto l’acqua. Già entro la fine del 2011 si prevedono in tutto il mondo 50 milioni di profughi da queste isole. Un esempio eclatante è Tuvalu, isola polinesiana, il cui punto più alto conta pochi metri sul livello del mare. È facile prevedere il futuro di queste isole qualora il livello del mare si dovesse alzare.
I rifugiati climatici possono però provenire anche da regioni in cui la vita diventerà troppo dura, a causa della sempre maggiore scarsità delle risorse necessarie per la sussistenza, come un terreno troppo povero per essere coltivato o la scarsità o totale mancanza di acqua. Ad esempio, entro il 2025 si prevede che ben il 66% delle terre arabili in Africa scomparirà, il 34% in Asia e il 20% nell’America meridionale. Il ghiacciaio del Muir, uno dei più grossi dell’Alaska, come tanti altri è ormai scomparso. Il deserto del Gobi, tra Cina e Mongolia, ha inghiottito 65.000 km2 di terreni agricoli solo nel 2008. Le tempeste di sabbia in Cina sono sempre più forti, tanto che la sabbia arriva ormai persino in California. Per la Cina si prevedono 50-200 milioni di persone che si muoveranno a causa dei cambiamenti climatici. Il lago Quingtsu nella regione cinese del Gansu è completamente desertificato. Allo stesso modo il lago Ciad  (nell'immagine) nell’Africa centro-settentrionale: 14.000 km2 di acqua spariti. Si prevede che entro il 2020, ulteriori 75-250 milioni di persone (oltre a quelle già esistenti) soffriranno di “stress idrico” in Africa.
Il regista vuole dimostrare che il fenomeno non è da sottovalutare e che i potenti della Terra e i governi tutti dovrebbero iniziare a ragionare pensando all’umanità come un’unica nazione, in quanto questi fenomeni, seppur inizialmente locali, investiranno un numero altissimo di persone, che si riverseranno poi negli altri paesi, creando ovviamente enormi problemi sociali.
Insomma il tempo stringe, e qualcosa bisogna fare perché quello che temevamo è già iniziato.
“Io penso che noi siamo le persone che le generazioni future stavano aspettando”.

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