Articolo pubblicato su PeaceLink
Viviamo in un paese in cui il dissesto idrogeologico viene continuamente ignorato, nonostante buona parte del nostro paese sia a rischio. L’ennesima alluvione in Liguria ne è la triste conferma e mette in luce l’enorme problema, sottovalutato, delle condizioni di piccoli torrenti e fiumare, il tallone d’Achille d’Italia. I corsi d’acqua minori vengono regolarmente intubati, imbrigliati, lasciati invadere da detriti d’ogni genere, spesso usati come discariche o ricoperti da strade e rappresentano la principale criticità del territorio. Da Giampilieri (Me) alle recenti alluvioni in Provincia di Savona e Genova, passando per Atrani (Sa), basta un nubifragio per trasformare esondazioni in tragedie. E con l’ultima sciagura a Prato il triste bilancio del dissesto italiano ha raggiunto le 44 vittime solo nell’ultimo anno. Eppure, per fronteggiare l’emergenza, dall’ottobre 2009 ad oggi, sono stati stanziati dallo Stato 237 milioni di euro. Ma il problema consiste nel fatto che il denaro stanziato nelle situazioni critiche viene utilizzato solo per tamponare il disastro, per riparare i danni e per ricostruire, a fatica, quanto è stato distrutto dalla violenza della natura, senza mai apportate migliorie alle situazioni evidentemente precarie. Per mettere in sicurezza il territorio serve invece una grande opera di manutenzione pluriennale a partire dai piccoli corsi d’acqua. Un piano di prevenzione che garantisca la sicurezza dei cittadini e contrasti l’abusivismo e l’urbanizzazione selvaggia. Leggiamo nel rapporto “Pianificazione territoriale e rischio idrogeologico” redatto dal Ministero dell’Ambiente nel lontano 2003 (l’ultimo disponibile): “la stima del fabbisogno finanziario complessivo per la sistemazione dei bacini per oltre 11.402 interventi di messa in sicurezza del territorio già individuati ammonta a 33.428 milioni di euro”. Insomma, servono oltre 33 miliardi per la messa in sicurezza; soldi che ovviamente non ci sono. Quelli per il ponte sullo stretto invece sì. Come sempre, è questione di scelte. E non si tratta di un problema marginale o occasionale. Basti pensare che negli ultimi 50 anni in Italia si sono verificate 470.000 frane, che hanno causato 6 vittime ogni mese, 3.500 morti in tutto.
Viviamo in un paese in cui il dissesto idrogeologico viene continuamente ignorato, nonostante buona parte del nostro paese sia a rischio. L’ennesima alluvione in Liguria ne è la triste conferma e mette in luce l’enorme problema, sottovalutato, delle condizioni di piccoli torrenti e fiumare, il tallone d’Achille d’Italia. I corsi d’acqua minori vengono regolarmente intubati, imbrigliati, lasciati invadere da detriti d’ogni genere, spesso usati come discariche o ricoperti da strade e rappresentano la principale criticità del territorio. Da Giampilieri (Me) alle recenti alluvioni in Provincia di Savona e Genova, passando per Atrani (Sa), basta un nubifragio per trasformare esondazioni in tragedie. E con l’ultima sciagura a Prato il triste bilancio del dissesto italiano ha raggiunto le 44 vittime solo nell’ultimo anno. Eppure, per fronteggiare l’emergenza, dall’ottobre 2009 ad oggi, sono stati stanziati dallo Stato 237 milioni di euro. Ma il problema consiste nel fatto che il denaro stanziato nelle situazioni critiche viene utilizzato solo per tamponare il disastro, per riparare i danni e per ricostruire, a fatica, quanto è stato distrutto dalla violenza della natura, senza mai apportate migliorie alle situazioni evidentemente precarie. Per mettere in sicurezza il territorio serve invece una grande opera di manutenzione pluriennale a partire dai piccoli corsi d’acqua. Un piano di prevenzione che garantisca la sicurezza dei cittadini e contrasti l’abusivismo e l’urbanizzazione selvaggia. Leggiamo nel rapporto “Pianificazione territoriale e rischio idrogeologico” redatto dal Ministero dell’Ambiente nel lontano 2003 (l’ultimo disponibile): “la stima del fabbisogno finanziario complessivo per la sistemazione dei bacini per oltre 11.402 interventi di messa in sicurezza del territorio già individuati ammonta a 33.428 milioni di euro”. Insomma, servono oltre 33 miliardi per la messa in sicurezza; soldi che ovviamente non ci sono. Quelli per il ponte sullo stretto invece sì. Come sempre, è questione di scelte. E non si tratta di un problema marginale o occasionale. Basti pensare che negli ultimi 50 anni in Italia si sono verificate 470.000 frane, che hanno causato 6 vittime ogni mese, 3.500 morti in tutto.
Leggiamo ancora “I dati di sintesi rilevabili
dallo studio mostrano che la superficie del territorio italiano a ‘potenziale
rischio idrogeologico più alto’ è pari a 21.504 chilometri quadrati, di cui
13.760 per frane e 7.744 per alluvioni. Si tratta del 7,1% della superficie
della nazione. Sono 5.553 i comuni interessati, pari al 68,8% dei comuni
italiani”. Ebbene sì, più dei due terzi dei comuni italiani sono esposti al
rischio idrogeologico più alto. Poi esiste il rischio medio e quello basso, ma
in questo rapporto non vengono considerati. Leggiamo ancora che “in Valle
d’Aosta, in Umbria e Calabria il 100% dei comuni della regione sono interessati
da aree a potenziale rischio”. Tutti, nessuno escluso. E dopo di esse, tante altre regioni non se la
passano di certo meglio: in Piemonte, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Marche,
Lazio, Campania, Molise, Basilicata almeno l’80% dei comuni sorgono in aree
critiche. Ma non si può non restare sconcertati se si fa un paragone tra i
comuni e la percentuale del territorio regionale interessati a rischio
idrogeologico. Basta considerare il dato nazionale: solo il 7,1% del territorio
nazionale è a rischio, ma il 68,6% dei comuni sorge su di esso. In Calabria
solo il 7,7% del territorio è considerato a rischio e in Umbria il 10,7%, ma
tutti i comuni di queste due regioni, nessuno escluso, sono stati costruiti,
almeno in parte, su aree a forte rischio.
In Liguria l’80% dei comuni ha nel
proprio territorio abitazioni in aree golenali, in
prossimità degli alvei maggiori dei fiumi e
il 27% ha costruito interi quartieri in queste zone. Nel 53% dei comuni sono
presenti strutture e fabbricati industriali in aree a rischio, che comportano
in caso di alluvione, oltre al rischio per le vite dei dipendenti, anche il
pericolo di sversamento di prodotti inquinanti nelle acque e nei terreni. Nel
21% dei comuni sono presenti in zone esposte a pericolo di frana o alluvione
anche strutture sensibili o strutture ricettive turistiche.
“A un anno esatto dalla frana di
Giampilieri – disse il presidente di Legambiente dopo il disastro
ligure – ci troviamo nuovamente in un’altra zona di fronte
alla tragedia, senza che nulla sia stato fatto per la prevenzione. Un eterno
allarme quello del dissesto idrogeologico che da Nord a Sud suona puntuale ogni
volta che il maltempo si affaccia sulla Penisola ”.
Ma Sicilia, Campania e Liguria
sono solo le ultime regioni in cui si sono verificati eventi atmosferici
eccezionali la cui ricaduta sul territorio ha causato danni e vittime. Un altro
aspetto negativo di queste situazioni di criticità è la non efficienza del
sistema di protezione civile, colto spesso impreparato. Gli eventi piovosi che
hanno causato i disastri dal sud al nord dell’Italia sono tipici per la breve
durata e la grande quantità d’acqua riversata sulla superficie del suolo
investendo aree di limitata estensione, variabile da qualche decina a un
centinaio di chilometri quadrati. Si tratta di celle temporalesche
autorigeneranti che si attivano rapidamente nei periodi di transizione delle
stagioni e colpiscono prevalentemente le aree costiere caratterizzate da
barriere morfologiche che si elevano ripidamente dal livello marino fino ad
oltre 1000 metri di altezza. Si tratta dei micidiali sistemi
temporaleschi a mesoscala che negli ultimi 60 anni, in Italia, hanno
provocato circa 500 vittime e danni immensi al patrimonio abitativo e alle
infrastrutture. La loro pericolosità è nota da sempre, e l’Italia è un Paese
per natura molto esposto a questo tipo di fenomeni: per questo motivo il
sistema di protezione civile dovrebbe essere organizzato per tutelare la vita
dei cittadini, ma purtroppo non è così.
Le ricerche eseguite negli ultimi
anni nelle zone devastate dalle numerose alluvioni lampo, dimostrano che
dall’inizio della pioggia fino all’innesco di frane, piene e dissesti vari
passano dai 15 ai 120 minuti: un lasso di tempo fondamentale per salvaguardare
le vite umane. Va detto chiaramente che eventi piovosi talmente tanto violenti
quelli di Messina (300mm in meno di tre ore) e Genova (400mm in pochissimo
tempo) causano ripercussioni sul territorio, in tutto il mondo, ovunque essi si
verifichino. In queste occasioni la natura manifesta la propria potenza e si
riappropria degli spazi necessari per smaltire i flussi eccezionali secondo le
leggi che governano i fenomeni naturali a cui appartengono anche gli eventi
eccezionali. È evidente quindi che il principale sistema di prevenzione sta
nell’intelligenza dell’uomo, nella sapienza di chi decide i piani di
urbanizzazione e dei costruttori, che dovrebbero sempre tener conto degli spazi
che sono periodicamente “reclamati” dai fenomeni naturali. Ma purtroppo le
leggi fatte dall’uomo hanno sempre la presunzione che la natura debba
sottostare ed esse. E il risultato è che le aree sono state urbanizzate molto
spesso fino al contatto con gli alvei fluviali e torrentizi; addirittura molto
spesso quest’ultimi sono stati ricoperti (come ad Atrani, a Casamicciola e nel
messinese) e trasformati in strade.
Non stiamo parlando di abusivismo edilizio, o per lo meno non solo. Spesso infatti vengono urbanizzate aree che avrebbero dovuto sottostare alle leggi della natura ed essere lasciate libere a disposizione degli eventi eccezionali. In territori costieri come il messinese, la penisola amalfitana, la costa calabra, la costa ligure e molte altre zone d’Italia soggette ciclicamente a frane e alluvioni, vivono milioni di abitanti: sono aree densamente urbanizzate anche allo sbocco dei corsi d’acqua alle pendici dei rilievi più ripidi e idrogeologicamente instabili. E invece in Italia, tra il 1990 e il 2005 sono stati divorati dall’asfalto 3,5 milioni di ettari, una superficie più grande di Lazio e Abruzzo messi insieme.
Non stiamo parlando di abusivismo edilizio, o per lo meno non solo. Spesso infatti vengono urbanizzate aree che avrebbero dovuto sottostare alle leggi della natura ed essere lasciate libere a disposizione degli eventi eccezionali. In territori costieri come il messinese, la penisola amalfitana, la costa calabra, la costa ligure e molte altre zone d’Italia soggette ciclicamente a frane e alluvioni, vivono milioni di abitanti: sono aree densamente urbanizzate anche allo sbocco dei corsi d’acqua alle pendici dei rilievi più ripidi e idrogeologicamente instabili. E invece in Italia, tra il 1990 e il 2005 sono stati divorati dall’asfalto 3,5 milioni di ettari, una superficie più grande di Lazio e Abruzzo messi insieme.
L’emblema di quella che può
essere la stupidità umana nell’edilizia la possiamo trovare a Sestri Ponente,
precisamente in via Giotto n.15. Un palazzo, costruito nel 1953, direttamente
sopra il fiume, una vera e propria palafitta sul torrente Chiaravagna. È
ritenuto il principale responsabile dell'esondazione del rio, che una volta
trovata la strada sbarrata davanti a sé è straripato dal margine sinistro e ha
sputato tutto quel che trascinava a velocità folle. Come già era successo
nell'alluvione del 1992. Un edificio alto quattro piani, che da 20 anni è al
centro di una causa legale. E ancora non si vede la fine di una telenovela che
con le grandi piogge rischia di trasformarsi, ogni volta, in un film
drammatico.
Allargando gli orizzonti, in
tutta la Liguria le esondazioni sono
un male con cui gli abitanti sono abituati a convivere da decenni, frutto della
cementificazione selvaggia, del disboscamento e degli incendi. I crinali delle
montagne, che scendono veloci verso i mari, sono ormai ricoperti di cemento (la
Liguria tra il 1990 e 2005 ha ricoperto di cemento quasi la metà del territorio
ancora libero) e nudi per i troppi incendi; così, quando le piogge sono intense
il risultato è immediato: l’acqua dall’alto delle colline arriva al mare in
pochissimi minuti con una forza terrificante. Questo è il frutto di una pianificazione urbanistica dissennata, che
ha permesso di ricoprire di cemento i fianchi delle montagne, si sono costruiti
nuovi quartieri senza pensare alla pulitura e a incanalare i rivi e i torrenti.
Così come dopo gli incendi, gli ultimi devastanti nel 2009, le amministrazioni
non si sono curate di ri-infoltire la vegetazione delle colline. Purtroppo,
come in tutta Italia, costruire porta consensi elettorali, mentre la
manutenzione dei rivi sono opere che passano nel silenzio, che non si vede e
che non portano alcun voto, nonostante siano fondamentali per la nostra
sicurezza. Ma i risultati di questa politica miope sono questi, devastazione e perdita di vite umane.
I video amatoriali che riprendono
fiumi in piena che corrono per i vicoli di Atrani
(video
1, video
2) hanno fatto il giro del mondo. Non è un caso che i geologi ad Atrani,
così come in Liguria, abbiano parlato di “disastri
annunciati”. Atrani, gioiellino sulla costiera amalfitana, si è trasformata
in una palude in seguito all’esondazione del fiume Dragone che, attraverso un
alveo sotterraneo, giunge al mare passando proprio sotto il paese. Un paese
devastato e una giovane vittima di 25 anni, Francesca Mansi, sono il tragico
bilancio. Insomma, il paese è stato costruito sopra il letto di questo piccolo
fiume, non considerando però, che in caso di forte piogge, avesse necessità di
una spazio di “sfogo”. Così, le forti piogge, durate ore, e i detriti che hanno
ostruito l’imbocco dell’alveo hanno provocato la fuoriuscita dell’acqua mista a
fango e detriti che si è riversata per le strade del paese. Uno scenario
apocalittico tanto che il sindaco, Nicola Carrano, confessò di aver temuto la distruzione dell’intero paese. Già nel
1986 in paese si verificò un evento simile, anche allora una vittima, ma da
allora gli unici interventi sono stati di tamponamento e non risolutivi del
problema. Così, la grande massa d’acqua che in poco tempo ha gonfiato il fiume
Dragone ha raggiunto la zona del bacino idrografico dove avrebbe dovuto
normalmente defluire, ma “il letto del fiume è stato coperto con una strada e
la parte finale del fiume è stata completamente edificata”, osserva la geologa
Nicoletta Santangelo, del dipartimento di Scienze della Terra dell’università
di Napoli Federico II. “Eppure è noto che questa zona viene periodicamente
colpita da alluvioni; dal 1700 ad oggi è sempre stata interessata da fenomeni
alluvionali. Tuttavia la gente se ne dimentica e ha scelto di costruire qui le
abitazioni”.
Ma non bastasse l’urbanizzazione
incurante delle leggi della natura, in Campania l’abusivismo edilizio è da
record: negli ultimi 10 anni, come riporta il libro-inchiesta “La colata”, sono state realizzate 60.000
case abusive, alla media di 6000 ogni anno, 16 al giorno, mentre a Ischia ci
sono 120.000 vani abusivi su una popolazione di 60.000 abitanti.
Ma purtroppo, come si sa, dietro
l’edilizia il giro di affari è enorme e gli imprenditori senza scrupoli hanno
spesso un consistente appoggio tra gli amministratori locali. Peppino Basile
era consigliere comunale e provinciale per l’IdV a Ugento e si è sempre battuto
contro la speculazione edilizia sulle coste salentine. Non aveva paura di dire “L’unico modo per farmi tacere è ammazzarmi”,
credeva fermamente nelle sue battaglie, nonostante le ripetute minacce. Ma il
15 giugno 2008 lo presero in parola. Peppino Basile venne ammazzato con 19
coltellate davanti la porta di casa.
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