Il quartiere Tamburi di Taranto e l'Ilva sullo sfondo |
La D'Amico basa il suo documentario su un'idea forte di contrapposizione che si trasferisce subito al livello dell'immagine: da un lato, le fredde ciminiere, le sagome nere e minacciose delle fornaci che occludono l'orizzonte, l'angosciante profilo notturno della zona industriale illuminata dai fari rossi delle luci di sicurezza; dall'altro, l'umanità assoluta delle donne che combattono contro il mostro di lamiera, che hanno invece occhi pieni di lacrime, volti stanchi, mani che spesso si chiudono in pugni di rabbia. Ma sono donne combattive (mogli, madri, lavoratrici) che vogliono spezzare il bastone dell’illegalità e dell’arroganza. Vogliono mettere fine all’impunità che mortifica la propria dignità, uccide i propri mariti e i propri figli, mina la propria salute. Donne che si ribellano, oggi, contro quella che a Taranto e per Taranto è stata da sempre considerata una salvezza, ma da qualche tempo il peggiore dei mali: l’Ilva. Il documentario racconta la battaglia di cinque donne in particolare: Francesca e Patrizia, mogli di operai morti all’Ilva; Vita, mamma di un giovane operaio finito ammazzato sotto una gru nello stabilimento; Margherita, ex dipendete sottoposta a soprusi, mobbizzata, licenziata; Anna, finita improvvisamente sulla sedia a rotelle, probabilmente come conseguenza dell’inquinamento ambientale. In primo piano la loro storia umana, di lavoro, di sofferenza. La loro voglia e necessità di riscatto per sé e per gli altri: nelle aule dei tribunali, nelle manifestazioni di piazza, nelle denunce senza veli alle massime cariche dello Stato. Denunce per le quali il proprietario Riva è stato condanndato in un primo processo a 6 mesi di carcere per "gettito pericoloso di polveri nocive", pena ridicolmente commutata in un'ammenda di 6.750 euro per un imprenditore miliardario. Oggi è in corso un nuovo processo dove Riva è già stato condannato per tentata violenza privata per il caso della palazzina Laf e per omissioni contro gli infortuni e violazione di norme contro l'inquinamento; si attende l'esito della Cassazione.
E non è un caso se hanno le facce coperte da bianche maschere senza espressione, le comparse usate per la ricostruzione dell'infame storia della palazzina Laf, ala in disuso del complesso, riconosciuto dai giudici come lager, che il 'padrone' Emilio Riva ri-destina come confino per gli operai 'dissidenti' o che rifiutano di essere collocati a un livello inferiore rispetto alla loro qualifica; esperimento estremo di mobbing in cui 70 uomini e donne costantemente piantonati vengono costretti a non far nulla sul posto di lavoro per tutta la giornata, ricavandone depressioni acutissime e tentativi di suicidio: non avendo più un volto che la macchina da presa può scrutare ed indagare con lo zoom e il primissimo piano, come D'Amico fa con le donne che intervengono nel film, hanno conseguentemente perso la loro umanità, per colpa dell'incredibile trattamento ricevuto.
Similmente, ha il volto nascosto nell'ombra di uno studio di posa nero e buio, l'attore Alessandro Langiu che interpreta l'operaio morto sul lavoro Antonino Mingolla, nei frammenti del documentario in cui recita in prima persona il racconto scritto da Francesca Caliolo, la moglie dell'uomo, all'indomani del lutto, intitolato La svolta. E' la composta ribellione di volti che non vogliono sparire nell'oscurità ma intendono stagliarsi alla luce con tutta la fermezza di un monito senza possibilità di appello.
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