26 ottobre 2010

Living Planet Report 2010

Il Wwf ha presentato pochi giorni fa il Living Planet Report 2010, il rapporto annuale sullo stato di salute del pianeta in termini di biodiversità e di pressione antropica sulla biosfera. Grazie a un ampio set di indicatori complementari, il rapporto documenta i cambiamenti avvenuti nella biodiversità, negli ecosistemi e nel consumo delle risorse naturali da parte dell’umanità ed esplora le ripercussioni di tali cambiamenti sul futuro della salute, della ricchezza e del benessere umano. Eccovene una ricca sintesi.

Per la prima volta, il Living Planet Report 2010 ha incrociato i trend delle specie e dell’impronta ecologica con i redditi dei singoli Paesi, mostrando come i Paesi a più alto reddito hanno un’impronta ecologica pari a circa 5 volte quella dei Paesi a basso reddito, che subiscono invece la maggiore perdita di biodiversità. La rapida crescita economica ha causato infatti una sempre maggiore domanda delle risorse necessarie per alimentazione, energia, trasporti, prodotti elettronici, spazi in cui vivere e in cui smaltire rifiuti, soprattutto il biossido di carbonio derivante dai combustibili fossili. Mano a mano che queste risorse non vengono più trovate all’interno dei confini nazionali, esse vengono ricercate in altre parti del mondo.
Il rapporto ha messo inoltre in relazione l’Indice del pianeta vivente (LPI) – una misura dello stato di salute della biodiversità mondiale – con l’Impronta ecologica e l’Impronta idrica, misure della pressione antropica sulle risorse naturali della Terra. Tali indicatori dimostrano chiaramente che la spinta senza precedenti alla ricchezza e al benessere degli ultimi 40 anni sta esercitando una pressione insostenibile sul nostro pianeta.
Una delle misure a più lungo termine sull’andamento della biodiversità mondiale, l’Indice del pianeta vivente, mostra un trend che è rimasto inalterato dal primo Living Planet Report del 1998: una diminuzione globale di circa il 30% fra il 1970 e il 2007. I trend delle popolazioni di specie tropicali e temperate divergono fortemente: l’indice LPI tropicale è diminuito di circa il 60%, mentre quello temperato è aumentato di circa il 30%. La causa di questi trend contrastanti riflette le differenze fra le velocità e i tempi di cambiamento nell’utilizzo del suolo e, di conseguenza, di perdita di habitat, nelle zone temperate e in quelle tropicali. L’aumento dell’indice LPI delle zone temperate a partire dal 1970 può essere dovuto a una base di partenza inferiore e al fatto che le popolazioni di specie siano in ripresa grazie a un maggiore controllo dell’inquinamento, a una migliore gestione dei prodotti di scarto, a migliori qualità di acqua e aria, a un aumento della copertura forestale e/o al maggior impegno nel campo della conservazione, per lo meno in alcune regioni temperate. Di contro, l’indice LPI tropicale parte da una base più alta e riflette i cambiamenti su larga scala degli ecosistemi che, in queste regioni, sono progrediti ininterrottamente dal 1970, con un peso complessivo negativo maggiore di quello positivo dovuto agli sforzi di conservazione.
L’Impronta ecologica misura invece la superficie di terra e di acqua necessarie alla produzione delle risorse rinnovabili utilizzate e comprende lo spazio necessario per le infrastrutture e la vegetazione per assorbire il biossido di carbonio immesso (CO2). Anche essa mostra un trend di crescita costante. Gli ultimi dati del 2007 mostrano che l’Impronta ha superato la biocapacità della Terra – la superficie realmente disponibile per la produzione di risorse rinnovabili e l’assorbimento della CO2 – del 50%. In generale, dal 1966 l’Impronta ecologica dell’umanità è raddoppiata. Questo incremento del sovrasfruttamento ecologico è ampiamente attribuibile all’Impronta di carbonio aumentata 11 volte dal 1961 e di poco più di un terzo dalla pubblicazione del primo Living Planet Report nel 1998. Detto in parole più semplici, la Terra necessiterà di un anno e mezzo per rigenerare le risorse consumate nel solo 2007. Se il trend resterà costante, nel 2030 saranno necessari "due pianeti Terra" per bilanciare le risorse consumate dall'essere umano nel corso di un anno. E' evidente che non è un sistema sostenibile.
Il sorpasso della soglia di sostenibilità è avvenuto durante gli anni '70, ovvero l’umanità ha iniziato a consumare le risorse rinnovabili a una velocità maggiore di quella impiegata dagli ecosistemi per rigenerarle e a rilasciare un quantitativo di biossido di carbonio maggiore di quello che gli ecosistemi riescono ad assorbire. Questa situazione è chiamata “superamento dei limiti ecologici” (overshoot) e, da allora, è progredita ininterrottamente. L’ultimo calcolo dell’Impronta ecologica mostra come questo trend non abbia subito alcuna flessione negli anni. 
L’analisi dell’Impronta ecologica basata su quattro raggruppamenti politici, che rappresentano i diversi livelli economici, dimostra che la domanda dei paesi a più alto reddito e livello di sviluppo nei confronti degli ecosistemi del pianeta è maggiore di quella dei paesi poveri e meno sviluppati. Nel 2007, i 31 paesi OCSE – comprendenti le economie più ricche del mondo – hanno contribuito all’Impronta ecologica dell’umanità per il 37%. Di contro, i 10 paesi ASEAN e i 53 dell’Unione Africana – comprendente alcuni dei paesi più poveri e meno sviluppati del mondo – hanno contribuito all’Impronta globale solo per l’11%. Infatti, tra il 1970 e il 2007 l’Impronta ecologica pro capite dei paesi a basso reddito è diminuita, mentre quella delle nazioni a medio reddito è leggermente aumentata. L’Impronta ecologica dei paesi ad alto reddito non solo è aumentata significativamente, ma ha addirittura portato alla contrazione dell'impronta delle altre due categorie.
L’Impronta idrica fornisce una seconda misurazione della pressione antropica sulle risorse rinnovabili e mostra come attualmente 71 paesi stiano sperimentando uno stress sulle risorse di acque blu, ovvero le risorse idriche utilizzate e non restituite, e come, in circa due terzi di questi paesi, tale stress sia quantificato fra il moderato e il grave. Si prevede che entro il 2025 quasi due terzi della popolazione mondiale, circa 5,5 miliardi di persone, vivranno in zone sottoposte a uno stress idrico da moderato a grave. L’impronta idrica è in costante aumento e considerando l’acqua “virtuale”, ovvero l'acqua contenuta nei prodotti commercializzati internazionalmente, ha impatti e ricadute su fiumi e falde acquifere di tutto il mondo. Ad esempio, un abitante del Regno Unito consuma mediamente 150 litri di acqua al giorno, ma l'importazione nel Paese di una vasta gamma di prodotti esteri, soprattutto cibo e capi d'abbigliamento, porta questo valore fino a 4.645 litri di risorse idriche mondiali al giorno, con un grosso impatto su fiumi e falde acquifere di tutto il mondo.
Le nazioni ricche devono quindi trovare un modo per vivere sulla Terra in maniera più sostenibile, riducendo drasticamente la propria impronta, soprattutto per quanto riguarda l’utilizzo dei combustibili fossili. Anche le economie in rapida ascesa devono individuare un nuovo modello di sviluppo, che consenta loro di continuare ad accrescere il livello di benessere dei loro abitanti in maniera sostenibile per il pianeta. Sarà necessario quindi trovare nuovi metodi per ricavare sempre di più da meno risorse. Continuare a consumare le risorse della Terra più rapidamente di quanto essa riesca a rigenerarle significa distruggere i sistemi dai quali dipendiamo. E di conseguenza distruggere noi stessi.

La perdita di biodiversità
5 sono le principali minacce alla biodiversità individuate dal rapporto del Wwf:  
- perdita, alterazione e frammentazione degli habitat: principalmente tramite conversione del suolo a scopo agricolo, industriale, urbano o per pratiche di acquacoltura, ma anche attività minerarie e altri cambiamenti apportati ai sistemi fluviali per irrigazione, energia idroelettrica o regolazione del flusso, attività di pesca fuori controllo;
- sovrasfruttamento delle popolazioni di specie selvatiche: cattura di animali e raccolta di piante, per ricavarne alimenti, materiali o medicine, a un tasso superiore alla capacità riproduttiva della popolazione; 
- inquinamento: derivante soprattutto dall’impiego eccessivo di pesticidi in agricoltura e acquacoltura, dagli effluenti urbani e industriali e dagli scarti delle attività minerarie;
- cambiamenti climatici: causati dall’innalzamento dei livelli dei gas a effetto serra nell’atmosfera, legati principalmente alla combustione di combustibili fossili, alla deforestazione e ai processi industriali;
- specie invasive: specie introdotte, deliberatamente o accidentalmente, in una regione del globo diversa da quella di provenienza, che diventano competitrici, predatrici o parassite di quelle native.
La perdita di biodiversità può causare lo stress o il degrado degli ecosistemi, fino anche al collasso. Ciò mette a rischio la fornitura continuata di servizi ecosistemici che, di contro, minaccia ulteriormente la biodiversità e la salute degli ecosistemi stessi. La dipendenza della società umana dai servizi ecosistemici rende la perdita di tali servizi una grave minaccia per il benessere e lo sviluppo futuro di tutta l’umanità nel mondo.
L’ultimo LPI globale indica una diminuzione di circa il 30% fra il 1970 e il 2007. La perdita di biodiversità  però differisce fortemente tra zona tropicale e zone temperate: in meno di 40 anni, l’indice LPI della zona tropicale è diminuito di circa il 60%, mentre quello della zona temperata è aumentato del 29%. Tuttavia, ciò non implica necessariamente che gli ecosistemi temperati si trovino in uno stato migliore di quelli tropicali. Se l’indice delle zone temperate facesse riferimento ai secoli passati, invece che ai decenni, probabilmente mostrerebbe un declino a lungo termine almeno delle stesse dimensioni di quello delle zone tropicali in epoca recente. Suddividendo la biosfera, nello stesso periodo è stata calcolata una perdita di biodiversità a livello globale in ambiente terrestre pari al 25%, in ambiente marino del 24% mentre nel sistema di acque dolci un calo del 35%. L’inquinamento continua a costituire uno dei principali problemi per molti sistemi fluviali. Dopo essere stata utilizzata a scopo agricolo, domestico o industriale, l’acqua carica di nutrienti, contaminanti e sedimenti viene restituita agli ecosistemi d’acqua dolce; spesso, inoltre, la sua temperatura può risultare maggiore dei bacini idrici che la ricevono. La situazione è particolarmente grave nei paesi in via di sviluppo, nei quali il 70% dei rifiuti industriali non trattati vengono smaltiti in acqua, contaminando così le risorse idriche esistenti. La conseguente riduzione della qualità dell’acqua ha un impatto profondo sulla salute delle specie e degli habitat. Inoltre, una scarsa qualità dell’acqua influisce sulla salute degli utenti a valle.
Molte cause della perdita di biodiversità derivano quindi dalla produzione e dal consumo di cibo, fibre, materiali ed energia. L’analisi dell’Impronta ecologica dimostra che questi consumi sono nettamente superiori nei paesi ad alto reddito rispetto a quelli nei paesi a basso e medio reddito, indicando che la perdita di biodiversità nelle nazioni a basso e medio reddito è almeno in parte collegata all’Impronta degli abitanti delle nazioni ad alto reddito. Come è possibile che i consumi in un paese siano correlati alla perdita di biodiversità in un altro? Un fattore consiste nella globalizzazione dei mercati e nella facilità di spostamento delle merci nel mondo, che consente alle nazioni di soddisfare la propria domanda di risorse naturali, come utilizzatori intermedi o finali, tramite le importazioni da altri paesi.
Aumentare la biocapacità del pianeta e costruire un economia sostenibile
Il WWF ha elaborato un decalogo per il futuro sostenibile e la green economy in cui ognuno ha un suo ruolo, a partire dall’elaborazione di nuovi indicatori di sviluppo all’aumento delle aree protette e della capacità produttiva del pianeta, dagli accordi internazionali per la distribuzione equa delle risorse, fino alle scelte individuali nella dieta e nei consumi di energia.
Una risposta a un’Impronta ecologica che supera le capacità di un pianeta consiste nell’aumentare la biocapacità del pianeta stesso. L’area bioproduttiva della Terra può essere ampliata bonificando le zone degradate e incrementando la produttività dei terreni marginali. Per esempio, ripristinare foreste o piantagioni su suoli degradati aumenta la biocapacità non solo grazie alla produzione di legname, ma anche per mezzo della regolazione delle risorse idriche, della prevenzione dell’erosione e della salinanizzazione e tramite l’assorbimento di CO2.
- Foreste: la deforestazione continua a una velocità allarmante. Alla 9° Conferenza delle parti (COP9), tenutasi a Bonn nel 2008, 67 ministri sottoscrissero il raggiungimento dell’obiettivo “zero deforestazione” entro il 2020.
- Acque dolci: il sistema delle acque dolci deve essere gestito in maniera tale da provvedere al fabbisogno dell’umanità e dei relativi ecosistemi . Ciò significa politiche migliori, volte a mantenere l’utilizzo delle risorse idriche all’interno dei limiti naturali e a evitare la frammentazione dei sistemi di acque dolci. Inoltre, è necessario riconoscere come un diritto di base dell’umanità il fornire a ogni individuo acqua potabile, la creazione di sistemi agricoli che ottimizzino l’impiego delle risorse idriche senza impatti sui bacini idrografici e la progettazione e costruzione di dighe e altre infrastrutture, mirate all’obiettivo di creare un equilibrio migliore fra fabbisogno umano e natura.
- Mare: l’eccessiva capacità delle flotte di pesca e il conseguente sovrasfruttamento costituiscono, in tutto il mondo, la principale pressione esercitata sugli stock ittici marini, che porta alla perdita di biodiversità e delle strutture degli ecosistemi marini. La pesca eccessiva comprende la cattura indiscriminata di forme di vita marine catturate accidentalmente. A breve termine è necessario ridurre la capacità delle flotte commerciali, allo scopo di ricondurre la pesca a un livello di prelievo sostenibile. Successivamente, una volta avvenuta una ripresa degli stock ittici, sarà possibile pensare a una pesca in quantità superiori.


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