Il rapporto di Greenpeace “Futuro negro para los glaciares” evidenzia gli enormi costi sociali collegati all’erosione delle masse gelate.
Che i ghiacciai stiano retrocedendo non è certo una novità. Ma il fatto
che tutti quelli della Patagonia argentina, circa un centinaio, negli
ultimi 10 anni abbiano perso in media oltre 35 metri, dà un’idea più
precisa di come stiano le cose. Basta guardare le foto del ghiacciaio
Ameghino per rendersi conto di come il riscaldamento globale stia
distruggendo queste grandi masse fredde che costituiscono la principale
riserva di acqua dolce del pianeta. L’Ameghino si trova nel sistema
glaciale Campo de Hielo Patagónico Sur, che si estende tra l’Argentina e
il Cile ed è la terza calotta polare più grande del mondo (dopo quello
dell’Antartide e della Groenlandia) e la più ampia dell’America Latina.
Nel giro di 79 anni, però, si è ritirato di quasi 4 chilometri.
«Dall’ultimo rapporto che abbiamo elaborato - spiega Juan Carlos Villalonga, direttore delle campagne di Greenpeace Argentina - e dai dati più recenti stilati dal Programma delle Nazioni unite per lo sviluppo, emerge un quadro allarmante: negli ultimi trent’anni ben 63 dei principali ghiacciai del Campo de Hielo Patagónico Sur si stanno sciogliendo, provocando un aumento del livello del mare di 0,042 mm all’anno». Scorrendo le pagine del rapporto di Greenpeace “Futuro negro para los glaciares” (Futuro nero per i ghiacciai), ci si trova davanti a numeri, tabelle e grafici che raccontano casi come quello del ghiacciaio Viedma, che negli ultimi 70 anni ha perso almeno 50 metri di altezza ed è retrocesso di circa un chilometro, o di quello di Upsala, che ha perso 13,4 chilometri quadrati tra il 1997 e il 2003.
«Dall’ultimo rapporto che abbiamo elaborato - spiega Juan Carlos Villalonga, direttore delle campagne di Greenpeace Argentina - e dai dati più recenti stilati dal Programma delle Nazioni unite per lo sviluppo, emerge un quadro allarmante: negli ultimi trent’anni ben 63 dei principali ghiacciai del Campo de Hielo Patagónico Sur si stanno sciogliendo, provocando un aumento del livello del mare di 0,042 mm all’anno». Scorrendo le pagine del rapporto di Greenpeace “Futuro negro para los glaciares” (Futuro nero per i ghiacciai), ci si trova davanti a numeri, tabelle e grafici che raccontano casi come quello del ghiacciaio Viedma, che negli ultimi 70 anni ha perso almeno 50 metri di altezza ed è retrocesso di circa un chilometro, o di quello di Upsala, che ha perso 13,4 chilometri quadrati tra il 1997 e il 2003.
«È importante ricordare che queste masse sono situate ai piedi della
montagna. Poi ce ne sono altre, che si trovano a una quota più alta,
come quelli delle zone di San Juan o della Rioja. Pur essendo molto più
piccole, hanno un ruolo importantissimo, in quanto somministrano acqua
dolce e alimentano i fiumi vicini ad aree, come quella di Mendoza, che
hanno un clima desertico ma che vivono della produzione vinicola e
agricola. Anche questi ghiacciai stanno scomparendo: una situazione che
ha un impatto sociale fortissimo», aggiunge Villalonga. Il problema non
riguarda solo la Patagonia: dal Kilimangiaro all’Himalaya, tutte le
calotte gelate si vanno rapidamente assottigliando, con conseguenze che,
secondo tutti gli ambientalisti, saranno nefaste per l’intero pianeta.
L’Argentina ha da poco assunto la presidenza del G-77 e dovrà
rappresentare l’America Latina alla prossima conferenza sul clima di
Durban, prevista per la fine di quest’anno. Un ruolo per niente facile,
se si considera che l’intero continente latinoamericano ha un impatto
del solo 13 per cento sull’inquinamento mondiale.
«Con la scomparsa dei ghiacciai, al di là dell’impatto sociale che si
produce a livello locale, si crea un altro problema - aggiunge
l’attivista -. Prima o poi, tutta la perdita di massa di ghiaccio finirà
per aumentare il livello degli oceani. Questo determinerà un impatto
devastante in tutto il globo terrestre. Le coste dell’Argentina sono
generalmente alte, ma ci sono zone nevralgiche che potrebbero soffrire
conseguenze gravi, come il Río de la Plata (l’estuario formato dal fiume
Uruguay e dal fiume Paranà, ndr). In questo fiume, infatti, si verifica
spesso un fenomeno meteorologico che si chiama sudestada: quando il
vento soffia da sud e l’acqua del fiume non riesce a sfociare nel mare,
il livello del Río aumenta, con conseguenti inondazioni in molte zone,
anche urbane, come quelle periferiche di Buenos Aires». Tutto il sistema
del Delta del fiume Paraná e del Río de la Plata potrebbe finire sotto
una massa d’acqua, inondando città come Rosario, la Plata e perfino la
periferia di Buenos Aires. Non è una scena da film catastrofico ma una
possibilità che alcuni oceanografi, se pur con cautela, iniziano a
intravedere.
«In Argentina, i climatologi associano al cambio climatico un altro
fenomeno che si verifica nella zona nord e in quella centrale del Paese:
la maggior frequenza di tormente di breve durata ma con un livello di
precipitazione molto inteso e con vento forte. Questo comporta
inondazioni e costi sociali altissimi. Un simile tipo di tormenta è
sempre esistito; adesso però la frequenza annuale è aumentata. Per
esempio nel nord della città di Santa Fe se prima accadeva una volta
all’anno, ora la frequenza è quadruplicata. Tra le zone più colpite c’è
il territorio di Tartagal, nella provincia di Salta. Questa parte del
nord-est argentino è stata duramente danneggiata nel 2009 e anche
recentemente», continua Villalonga. Negli ultimi trent’anni in Argentina
le precipitazioni sono aumentate notevolmente e, secondo la maggior
parte degli esperti, l’incremento non è riconducibile a una variazione
naturale ma conseguenza del riscaldamento globale. L’Argentina si è già
messa in marcia per «continuare a puntare sulla protezione
dell’ambiente», come ripete da giorni la presidentessa Cristina
Fernandez de Kirchner. Ma su questo versante le polemiche non mancano.
«Non credo che l’Argentina stia portando avanti una politica
ambientalista. Basta pensare che la matrice energetica dipende per il 90
per cento da combustibili fossili, livello record in America Latina. E
poi la coltivazione della soia ha avuto una espansione vertiginosa,
aumentando la deforestazione. Non solo, ma ha reso tutta l’agricoltura
argentina dipendente da un solo prodotto da esportare verso il mercato
europeo e cinese. Nel nord del Paese negli ultimi decenni sono stati
persi ogni anno circa 600mila ettari di foreste. Una tendenza che si è
ridotta soltanto nel 2009, quando è entrata in vigore la Ley de Bosque.
Non solo, c’è un altro fenomeno recente collegato alla coltivazione
della soia. L’ultimo censimento della popolazione, che risale a ottobre,
riporta un dato inquietante: la popolazione urbana è drammaticamente
aumentata perchè le zone rurali si stanno spopolando. Coltivare soia non
richiede molta mano d’opera e questo flusso migratorio è preoccupante
perché sta creando uno squilibrio le cui conseguenze sociali sono sotto
gli occhi di tutti», conclude Villalonga.
Quello della soia e dei combustibili fossili è solo uno dei tanti
problemi che dovrà affrontare l’Argentina. Un’altra storia, fatta di
smentite e polemiche. Per adesso, una cosa è certa: l’equilibrio
dell’ecosistema argentino è fragile. E l’immagine del ghiacciaio
Ameghino che scompare, sgretolandosi sotto il sole, questa fragilità la
racconta tutta.
Fonte: Terra
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